Il processo alle parole di uso comune è diventato uggioso. I comandamenti del politicamente corretto stabiliscono quali sono i vocaboli leciti e illeciti, e chi sgarra e ne usa altri viene messo alla berlina o addirittura condannato dalla legge e dagli ordini professionali, per esempio quello ridicolo dei giornalisti. Per i quali è vietato scrivere che un negro è un negro. Bisogna dire nero. Quasi che ci fosse una differenza sostanziale fra i due termini. Che invece non esiste. Tanto è vero che in Lombardia, nelle forme dialettali assai diffuse, nero si dice negher. «Mi go una giaca negra» è una espressione sulla bocca di tutti. Negher è un sinonimo di nero. Non ha valenze negative, o peggio, spregiative.
Ricordate la poesia: «...sotto la terra fredda... la terra negra...». A nessuno è mai venuto in mente che la lirica in questione fosse offensiva. Anche la Nigeriadovrebbe, applicando la logica dei fighetti, cambiare nome. Ada Negri sarebbe obbligata a mutare identità? Stiamo rasentando il ridicolo. Molti lettori ricorderanno alcune canzoni: «Siamo i vatussi, altissimi negri, ogni due passi facciamo tre metri...». Oppure: «In una foresta del centro Catanga c’è una tribù, una tribù de negher del menga...». Censuriamo anche queste? Io sono stato processato (tre anni) dalla mia corporazione perché avevo stampato sul Giornalequesto titolo: «Hanno ragione i negri». Mi riferivo agli immigrati in Calabria che raccoglievano i pomodori e venivano