Carlo Petrini è morto dieci anni fa in seguito ad un male incurabile. La sua fu una lotta lunga ed estenuante. Malgrado non ci vedesse più da un occhio, nonostante le sue condizioni fisiche erano sempre più debilitate, riuscì a conservare uno spirito battagliero. Lui che era nato in una famiglia povera: il papà raccoglitore di legna e la mamma casalinga. La sua infanzia fu segnata da due gravi lutti: il genitore e la sorella Carla morirono a causa del diabete e del tetano, malattie che oggi si possono curare.
La famiglia Petrini si era trasferita a Genova, erano i primi Anni Sessanta e il giovane Carlo avrebbe dovuto fare il muratore. Aveva talento calcistico anche se non si sforzava troppo per dimostrarlo. Finalmente nel 1960 entrò nelle giovanili del Genoa e da lì la sua carriera decollò. Esordì in prima squadra nel 1964 in Coppa Italia. Poi iniziò il suo peregrinare per lo Stivale: bravo era bravo, ma era incostante e anche indolente. Lecce, Genoa ancora, Milan (con Nereo Rocco e Gianni Rivera vinse nel 1969 la Coppa dei Campioni da riserva), Torino, Varese e via dicendo. La sua carriera era ormai declinante quando nel 1980, mentre giocava nel Bologna, scoppiò lo scandalo del calcio scommesse: Petrini fu ritenuto uno dei responsabili e venne squalificato per tre anni e sei mesi. Tornò dopo l'indulto concesso per la vittoria degli azzurri ai Mondiali del 1982 e chiuse nel Rapallo, con il quale fece in seguito una breve quanto inefficace esperienza come tecnico. Poi iniziarono i guai: la società finanziaria che aveva creato, dopo un discreto successo iniziale cominciò ad accumulare debiti su debiti nei confronti di usurai. Ma non solo: Petrini finì coinvolto in un giro malavitoso.
Per sfuggire ai creditori che lo aveva minacciato di morte scappò in Francia. Dopo anni di silenzio, nel 1995 il suo nome tornò prepotentemente alla ribalta: il figlio Diego, che stava morendo per un tumore, lanciò un appello sulla stampa chiedendo al padre di poterlo rivedere un'ultima volta. Ma Petrini, braccato dalla malavita, non tornò e suo figlio spirò senza averlo visto. Affetto da una forma di glaucoma, che gli procurò la cecità dell'occhio sinistro – e secondo i suoi medici curanti la malattia potrebbe essere stata provocata dall'assunzione di farmaci dopanti durante la sua carriera – Carlo non smise tuttavia di lottare contro il sistema calcio. E nel 2000 passò finalmente il Rubicone pubblicando la sua autobiografia ( Nel fango del dio pallone, Kaos edizioni), in cui raccontò fatti e misfatti del mondo del calcio italiano, come la pratica del doping. Scrisse di aver usato droghe più volte e con la complicità dei medici sportivi.
La famiglia Petrini si era trasferita a Genova, erano i primi Anni Sessanta e il giovane Carlo avrebbe dovuto fare il muratore. Aveva talento calcistico anche se non si sforzava troppo per dimostrarlo. Finalmente nel 1960 entrò nelle giovanili del Genoa e da lì la sua carriera decollò. Esordì in prima squadra nel 1964 in Coppa Italia. Poi iniziò il suo peregrinare per lo Stivale: bravo era bravo, ma era incostante e anche indolente. Lecce, Genoa ancora, Milan (con Nereo Rocco e Gianni Rivera vinse nel 1969 la Coppa dei Campioni da riserva), Torino, Varese e via dicendo. La sua carriera era ormai declinante quando nel 1980, mentre giocava nel Bologna, scoppiò lo scandalo del calcio scommesse: Petrini fu ritenuto uno dei responsabili e venne squalificato per tre anni e sei mesi. Tornò dopo l'indulto concesso per la vittoria degli azzurri ai Mondiali del 1982 e chiuse nel Rapallo, con il quale fece in seguito una breve quanto inefficace esperienza come tecnico. Poi iniziarono i guai: la società finanziaria che aveva creato, dopo un discreto successo iniziale cominciò ad accumulare debiti su debiti nei confronti di usurai. Ma non solo: Petrini finì coinvolto in un giro malavitoso.
Per sfuggire ai creditori che lo aveva minacciato di morte scappò in Francia. Dopo anni di silenzio, nel 1995 il suo nome tornò prepotentemente alla ribalta: il figlio Diego, che stava morendo per un tumore, lanciò un appello sulla stampa chiedendo al padre di poterlo rivedere un'ultima volta. Ma Petrini, braccato dalla malavita, non tornò e suo figlio spirò senza averlo visto. Affetto da una forma di glaucoma, che gli procurò la cecità dell'occhio sinistro – e secondo i suoi medici curanti la malattia potrebbe essere stata provocata dall'assunzione di farmaci dopanti durante la sua carriera – Carlo non smise tuttavia di lottare contro il sistema calcio. E nel 2000 passò finalmente il Rubicone pubblicando la sua autobiografia ( Nel fango del dio pallone, Kaos edizioni), in cui raccontò fatti e misfatti del mondo del calcio italiano, come la pratica del doping. Scrisse di aver usato droghe più volte e con la complicità dei medici sportivi.
Come detto, nel libro mise sotto accusa tutto il sistema: dalle partite già decise in anticipo dalle stesse società, ai pagamenti in nero e la scarsa moralità dei calciatori professionisti. Fra i principali accusati nei libri scritti da Petrini, Luciano Moggi, intentò una causa civile contro il giocatore nel frattempo diventato scrittore per alcune frasi del tipo: “Ci sono voluti i carabinieri per fermare il boss Luciano Moggi”, “
Il potere delinquenziale dell’amico Lucianone ha permesso al caro Marcello (Lippi, ndr) di vincere”, “La banda Moggi”. Ma le accuse caddero nel vuoto e fu infatti assolto perché secondo il tribunale di Milano queste affermazioni non erano diffamatorie ma desumibili dal rapporto dei carabinieri diffuso anche dai quotidiani sull'indagine Off-Side del 2005. Poco dopo la sua morte, gli ex calciatori rossoblù Castronaro e Sali, intervistati dalle Iene affermarono che la partita tra il Bologna e la Juventus della famigerata stagione 1979 /1980 fu effettivamente combinata per accordo tra le due società, confermando in pratica le dichiarazioni precedentemente fornite dall’allora compagno di squadra Petrini.
JACK PRAN