Centrocampista elegante e offensivo, è stato il trascinatore della squadra che nel 1988, sotto la guida di Marc Duvillard, ottenne la promozione in Lega nazionale A. “Che squadra, quella! – ci dice Gorter al telefono – Vinceva e divertiva. Peccato che allo stadio ci andava poca gente”. Unico tasto dolente, insomma, di stagioni comunque memorabili vissute a mille all’ora. “Se non sbaglio anche oggi a Cornaredo non ci sono troppi spettatori. Eppure il Lugano sta facendo bene...”, chiosa l’olandese, che nella primavera del 1990 aspirava ad una convocazione per i Mondiali italiani. “Ma come potevo sperare di entrare in un rosa dove c'erano elementi quali Gullit o Rijkaard? Eppure per un po' di tempo ci credetti: il commissario tecnico di allora Leo Beenhakker mi tenne in considerazione sino all’ultimo taglio: dei 30 papabili ne lasciò a casa due. Il sottoscritto ed un altro di cui non ricordo il nome”.
Willy: da dove cominciamo?
Dal Lugano. Che tempi! Memorabili. Una squadra con tre stranieri di buon livello, alcuni giocatori svizzeri di talento e soprattutto tanti giovani locali: Penzavalli, Colombo, Morf, Pelosi… Con una spina dorsale cosi non si poteva che far bene.
Ma ciò non bastava per attirare gente allo stadio.
Vero. Ma quello del pubblico è un fenomeno datato. Lugano è sempre stata una città snob, con un pubblico che non ha mai veramente apprezzato quanto faceva la società. Forse si pretendeva la luna. Eppure negli anni passarono grandi campioni. Ne cito uno: Mauro Galvao. Un nazionale brasiliano… Solo al suo esordio, contro il San Gallo se non sbaglio, ci furono tanti spettatori. Poi si dileguarono.
Si sente ancora con qualcuno dei suoi ex compagni?
Sono ancora legato a Mec Penzavalli. Con gli altri ho dei contatti. Ci si incontra quando vengo in Ticino. Nel 2022 li ho visti alla finale di Coppa contro il San Gallo. È stata una bella rimpatriata. Segno che in passato abbiamo condiviso dei bei momenti e che al di là di qualche discussione è rimasta la stima e l’amicizia.
Veniamo al presente: il Lugano va a gonfie vele.
Lo seguo sempre. E sono naturalmente felice divederlo battersi contro le migliori squadre della
Svizzera. Ma consiglio a tutti prudenza: è vero, è in finale di Coppa e lotta per il titolo. Però bisogna stare con i piedi per terra. I bianconeri possono vincere tutto o restare con un pugno di mosche. Sono sicuro che Croci Torti saprà tenere alta la concentrazione ed evitare cali di tensione.
Lei è rimasto molto legato al suo club. Anche se…
Anche se non ho saputo realizzare un obiettivo. E cioè quello di diventare direttore sportivo. Eravamo nella fase iniziale dell’era Renzetti. Ci furono contatti ma capii subito che loro puntavano su un altro tipo di dirigente. Lavoravano con il mondo del calcio italiano e perciò io mi feci da parte. Poi entrai nel settore giovanile ma non durò molto. Prendevo una paga molto bassa per il tempo che dedicavo alla società. Era troppo poco. Ma in fondo anche quell’esperienza mi servì per crescere.
Tornando al suo passato di calciatore: dopo il Lugano, venne il Caen.
Dopo cinque anni in bianconero, era arrivato il momento di cambiare. Mi volle la squadra del tecnico svizzero Jeandupeux e il primo anno andò benissimo. Ero stato votato come secondo miglior calciatore straniero del campionato. Poi però ìl rapporto con il tecnico cambiò e le cose cominciarono ad andar male. In quel periodo non particolarmente felice mi mancava molto Lugano e la società. A posteriori dico che forse non avrei dovuto andarmene.
Poi altre squadre meno quotate e infine gli States.
Sono arrivato nel calcio americano con 15 anni di anticipo. Oggi le condizioni sono cambiate: c’è un campionato di buon livello, giocatori di classe e dal passato glorioso, una lega che promuove di continuo questo sport attraverso la scuola e, di conseguenza, gli stadi sono pieni. Senza contare che i salari sono triplicati.
Rimpianti?
A pensarci bene ne ho uno. Quello di aver fatto parte di una generazione di giocatori olandesi che definire fenomeni non mi pare esagerato. Non ci fossero stati Gullit, Van Basten, Vaneburg o altri ancora, avrei disputato almeno un campionato del mondo. Nulla di grave, comunque, visto che la maglia orange l’ho vestita tante volte nelle selezioni giovanili, nelle quali ho anche indossato la fascia di capitano.
M.A.
Lei è rimasto molto legato al suo club. Anche se…
Anche se non ho saputo realizzare un obiettivo. E cioè quello di diventare direttore sportivo. Eravamo nella fase iniziale dell’era Renzetti. Ci furono contatti ma capii subito che loro puntavano su un altro tipo di dirigente. Lavoravano con il mondo del calcio italiano e perciò io mi feci da parte. Poi entrai nel settore giovanile ma non durò molto. Prendevo una paga molto bassa per il tempo che dedicavo alla società. Era troppo poco. Ma in fondo anche quell’esperienza mi servì per crescere.
Tornando al suo passato di calciatore: dopo il Lugano, venne il Caen.
Dopo cinque anni in bianconero, era arrivato il momento di cambiare. Mi volle la squadra del tecnico svizzero Jeandupeux e il primo anno andò benissimo. Ero stato votato come secondo miglior calciatore straniero del campionato. Poi però ìl rapporto con il tecnico cambiò e le cose cominciarono ad andar male. In quel periodo non particolarmente felice mi mancava molto Lugano e la società. A posteriori dico che forse non avrei dovuto andarmene.
Poi altre squadre meno quotate e infine gli States.
Sono arrivato nel calcio americano con 15 anni di anticipo. Oggi le condizioni sono cambiate: c’è un campionato di buon livello, giocatori di classe e dal passato glorioso, una lega che promuove di continuo questo sport attraverso la scuola e, di conseguenza, gli stadi sono pieni. Senza contare che i salari sono triplicati.
Rimpianti?
A pensarci bene ne ho uno. Quello di aver fatto parte di una generazione di giocatori olandesi che definire fenomeni non mi pare esagerato. Non ci fossero stati Gullit, Van Basten, Vaneburg o altri ancora, avrei disputato almeno un campionato del mondo. Nulla di grave, comunque, visto che la maglia orange l’ho vestita tante volte nelle selezioni giovanili, nelle quali ho anche indossato la fascia di capitano.
M.A.