Mondo, 27 luglio 2020
Recovery fund, rischio di un vietnam politico per l'UE?
Uno dei più convinti sostenitori del Recovery Fund approvato, nelle sue linee guida, dal recente Consiglio europeo, l’ex premier Mario Monti, è stato tra i pochi in Italia a sottolineare un rischio imprevisto nella strada verso l’entrata in vigore di Next Generation Eu: la necessità di ottenere l’approvazione da parte di tutti e 27 i parlamenti dell’Unione Europea prima di poter diventare pienamente operativo.
“Il bilancio della Ue 2021-27 e il Recovery Fund, per dispiegare i loro effetti, richiedono che la decisione sulle nuove risorse proprie venga ratificata da tutti gli Stati membri, come se fosse una modifica dei Trattati (e magari qualche paese penserà diricorrere a un referendum)”, ha fatto notare l’ex inquilino di Palazzo Chigi sul Corriere della Sera. Introducendo una nuova disciplina come la mutualizzazione del deficit attraverso gli aiuti a fondo perduto ed evolvendo la disciplina europea in materia di risposta emergenziale il Recovery Fund è dunque paragonabile a un vero e proprio trattato.
La questione può creare dei grattacapi imprevisti e rallentare l’entrata in vigore del programma anti-crisi, che secondo quanto dichiarato dalla Commissione dovrebbe entrare a pieno regime nella seconda metà del 2021, ma per il quale le grandi manovre inizieranno già in autunno. Casi del passato insegnano che questi passaggi, nell’Unione Europea contemporanea, non sono mai banali o da dare per scontati. Nel 2005 Olanda e Francia affossarono il progetto di Costituzione europea dopo che i rispettivi elettorati votarono contro di essa in dei referendum convocati ad hoc per sancirne l’approvazione. Nel 2016 l‘assemblea locale della Vallonia rallentò il processo di ratifica dell’accordo commerciale tra Ue e Canada, il Ceta, bloccando l’assenso del governo belga che necessitava del suo imprescindibile “semaforo verde”.
E anche nei prossimi mesi tutto può ancora succedere. L’Europa vive una fase di inquietudine politica e mesi

estremamente problematici, tra la corsa della pandemia di coronavirus e crisi economica: gli assetti istituzionali di diversi governi sono stati messi sotto pressione, e l’idea che in certi contesti il voto sul piano di aiuti possa trasformarsi in un’arma di politica interna, rendendo lo scenario europeo un vero e proprio Vietnam, non va scartata.
Per un’ironia della sorte, il Paese che va nuovamente tenuto d’occhio è l’Olanda di Mark Rutte. Il premier de L’Aja risulta tra i grandi vincitori della contesa, perché tra “freno d’emergenza” e conservazione dei rebate ha ottenuto tutto il possibile dal vertice, ma in patria dovrà superare lo scoglio di un voto in Parlamento. E se alla camera bassa la maggioranza composita che lo sorregge (popolari, cristiano-democratici, liberal-progressisti, e calvinisti) non corre rischi, al Senato, rinnovato nel 2019, con soli 31 seggi su 75, deve muoversi attraverso appoggi esterni variabili e rischia l’assalto alla diligenza da parte dei populisti. Gert Wilders, leader del Partito della Libertà, e Thierry Baudet, astro nascente del Forum per la Democrazia, sono pronti a dare la zampata affermando che Rutte non abbia fatto abbastanza per difendere le finanze del Paese in Europa.
Monti, fa notare Italia Oggi ha dunque ragione in questo caso, ponendo “in dubbio l’approvazione del Recovery Fund da parte di qualche parlamento, segnatamente di quello olandese. Con la conseguenza di fare saltare tutto l’impianto giuridico del Recovery Fund, compresi i prestiti e sussidi”. Incastonando il fondo nel quadro del bilancio europeo la strada per la riforma dell’architettura comunitaria è stata accelerata, ma resta ancora un importante dubbio da sciogliere prima di vedere in azione l’ambizioso piano per il rilancio dlel’Eurozona. E la dipendenza del Recovery Fund dal voto dei singoli esecutivi o parlamenti ci ricorda come, in Europa, in fin dei conti siano sempre gli Stati ad avere l’ultima parola.
Andrea Muratore / insideover.it