Fama impressionante: Garrincha padre, di cui ci occupiamo oggi, era diventato l’idole delle folle e delle donne brasiliane sul finire degli Anni Cinquanta. E quando si presentò ai mondiali del Cile nel 1962 la sua fama aveva già raggiunto livelli impressionanti. Solo Pelé lo superava. Ma O Rei si infortunò nella seconda partita della rassegna iridata e allora fu proprio l’attaccante del Botafogo a prendere in mano la Seleçao allora diretta da Aimoré Moreira e a portarla al secondo titolo consecutivo (record mai eguagliato sinora nella storia dei mondiali).
Mondiali violenti: quelli cileni furono i più cattivi e duri di sempre. Non fu un caso che Pelé non concluse il torneo e che in alcune partite accaddero episodi vergognosi. Una sfida che resterà negli annali fu senza dubbio Italia-Cile (vinta 2-0 dai padroni di casa), che terminò in rissa e con alcuni giocatori gravemente infortunati. Il Brasile riuscì a contenere i danni: al suo gioco arioso e spettacolare spesso e volentieri veniva contrapposto l’intimidazione e la provocazione. Grazie soprattutto a Garrincha superò tutti gli ostacoli e si laureò campione del mondo.
Idolo ribelle: a Mané, cresciuto a Pau Grande nello stato di Rio de Janeiro, non importava molto dell’etica o della morale. Era uno che si divertiva e basta: dominava sui terreni da gioco, e spopolava anche nelle balere, dove conquistava le più belle ragazze carioca. E sin qui nulla di strano, ci mancherebbe. Il problema è che il geniale Mané, un ala destra che dribblava senza pietà tutti i suoi avversari, aveva il vizio dell’alcol, un vizio che si trascinava già dall’eta adolescenziale, quando veniva deriso dai suoi colleghi a causa delle sue gambe storte e di un fisico quasi deforme.
Grottesco: con il tempo Garrincha divenne un caso sociale, i suoi amici e compagni di squadra lo avevano abbandonato. Meno Nilton Santos, che lo aveva sempre difeso ed incoraggiato. Mané faceva dentro e fuori gli ospedali dopo interminabili discussioni e risse al bar. Era diventato gonfio e la sua parlata debole ed affannosa. Il calcio ormai non gli interessava più: dopo i trionfi carioca e nel mondo, aveva girato per varie squadre ma solo per sfruttare il proprio nome e guadagnare qualche soldo per sfamarsi. Ad un certo punto cadde pure in miseria.
Straordinaria: la sua storia è stata definita straordinaria, perché lui é stato un uomo ed un calciatore straordinario, sin dall’infanzia, nella piccola Pau Grande, quando la sua madrina Leonor si accorse che aveva le gambe storte. A quei tempi non esistevano ancora apparecchi ortopedici e il piccolo non riuscì a togliersi di dosso quella fastidiosa anomalia a cui madre natura lo aveva costretto. Fu un amico, tale Pincel, ad affibbiargli il nomignolo Garrincha, un passero che lancia suoni magici. Sarebbe diventato immortale.
Solo e abbandonato: alle sei del mattino del 20 gennaio 1983, quasi 40 anni fa, Mané moriva solo ed abbandonato in un tetro ospedale di Bangu, nella periferia carioca, dove ogni mattina migliaia e migliaia di persone si mettono in marcia per recarsi in centro a lavorare. Dopo diversi ricoveri, dopo vani tentativi di recupero, il suo cuore non resse alle potenti ubriacature e agli stress subiti. Lui che per anni aveva sopportato le entrate rudi e durissime di terzini ringhiosi, l’insitenza di medici che gli consigliavano il ritiro per i suoi problemi fisici, le umiliazioni di giornalisti fastidiosi sempre alla ricerca di scoop sulla sua vita privata e allenatori incapaci di capirlo. Campione del Mondo in Svezia e in Cile non era riuscito a dribblare la propria tragedia.
JACK PRAN