Sport, 09 settembre 2022

La tragica decadenza di un uomo diventato mito

Mané Garrincha, campione del mondo nel 1958 e nel 1962 (da grande protagonista)

LUGANO - Mané e il Ticino: partiamo da un epoca più vicina rispetto a quella in cui Garrincha strabiliò il mondo sia per il suo estro calcistico che per una vita privata decisamente fuori dalla norma. Andiamo al 1987, anno in cui suo figlio Mané Junior, uno dei tanti procreati dal grande campione carioca, sbarcò clamorosamente nel calcio regionale ticinese, facendo le fortune del Maggia del presidente Gabriele Maccarinelli, che quasi non credeva ai suoi occhi quando si ritrovò gli inviati della Gazzetta dello Sport e della RAI nel comune del Locarnese per intervistare il figlio del grande calciatore brasiliano. Fu un’esperienza indimenticabile, per tutti: il giovane attaccate seppe regalare simpatia, umanità e classe pedatoria che ancora sono oggi sono ricordate dai valmaggesi. Mané Junior sarebbe morto nel 1992 in un incidente d’auto in Portogallo.


Fama impressionante: Garrincha padre, di cui ci occupiamo oggi, era diventato l’idole delle folle e delle donne brasiliane sul finire degli Anni Cinquanta. E quando si presentò ai mondiali del Cile nel 1962 la sua fama aveva già raggiunto livelli impressionanti. Solo Pelé lo superava. Ma O Rei si infortunò nella seconda partita della rassegna iridata e allora fu proprio l’attaccante del Botafogo a prendere in mano la Seleçao allora diretta da Aimoré Moreira e a portarla al secondo titolo consecutivo (record mai eguagliato sinora nella storia dei mondiali).


Mondiali violenti: quelli cileni furono i più cattivi e duri di sempre. Non fu un caso che Pelé non concluse il torneo e che in alcune partite accaddero episodi vergognosi. Una sfida che resterà negli annali fu senza dubbio Italia-Cile (vinta 2-0 dai padroni di casa), che terminò in rissa e con alcuni giocatori gravemente infortunati. Il Brasile riuscì a contenere i danni: al suo gioco arioso e spettacolare spesso e volentieri veniva contrapposto l’intimidazione e la provocazione. Grazie soprattutto a Garrincha superò tutti gli ostacoli e si laureò campione del mondo.


Idolo ribelle: a Mané, cresciuto a Pau Grande nello stato di Rio de Janeiro, non importava molto dell’etica o della morale. Era uno che si divertiva e basta: dominava sui terreni da gioco, e spopolava anche nelle balere, dove conquistava le più belle ragazze carioca. E sin qui nulla di strano, ci mancherebbe. Il problema è che il geniale Mané, un ala destra che dribblava senza pietà tutti i suoi avversari, aveva il vizio dell’alcol, un vizio che si trascinava già dall’eta adolescenziale, quando veniva deriso dai suoi colleghi a causa delle sue gambe storte e di un fisico quasi deforme. 



Grottesco: con il tempo Garrincha divenne un caso sociale, i suoi amici e compagni di squadra lo avevano abbandonato. Meno Nilton Santos, che lo aveva sempre difeso ed incoraggiato. Mané faceva dentro e fuori gli ospedali dopo interminabili discussioni e risse al bar. Era diventato gonfio e la sua parlata debole ed affannosa. Il calcio ormai non gli interessava più: dopo i trionfi carioca e nel mondo, aveva girato per varie squadre ma solo per sfruttare il proprio nome e guadagnare qualche soldo per sfamarsi. Ad un certo punto cadde pure in miseria.


Straordinaria: la sua storia è stata definita straordinaria, perché lui é stato un uomo ed un calciatore straordinario, sin dall’infanzia, nella piccola Pau Grande, quando la sua madrina Leonor si accorse che aveva le gambe storte. A quei tempi non esistevano ancora apparecchi ortopedici e il piccolo non riuscì a togliersi di dosso quella fastidiosa anomalia a cui madre natura lo aveva costretto. Fu un amico, tale Pincel, ad affibbiargli il nomignolo Garrincha, un passero che lancia suoni magici. Sarebbe diventato immortale.


Solo e abbandonato: alle sei del mattino del 20 gennaio 1983, quasi 40 anni fa, Mané moriva solo ed abbandonato in un tetro ospedale di Bangu, nella periferia carioca, dove ogni mattina migliaia e migliaia di persone si mettono in marcia per recarsi in centro a lavorare. Dopo diversi ricoveri, dopo vani tentativi di recupero, il suo cuore non resse alle potenti ubriacature e agli stress subiti. Lui che per anni aveva sopportato le entrate rudi e durissime di terzini ringhiosi, l’insitenza di medici che gli consigliavano il ritiro per i suoi problemi fisici, le umiliazioni di giornalisti fastidiosi sempre alla ricerca di scoop sulla sua vita privata e allenatori incapaci di capirlo. Campione del Mondo in Svezia e in Cile non era riuscito a dribblare la propria tragedia.


JACK PRAN

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