Sport, 20 ottobre 2024

Genitori da cartellino rosso: “La rovina dei propri figli”

Con il mental coach Fabio Donadelli parliamo della violenza dei papà a bordo campo o pista

LUGANO - Domenica scorsa. Una mattina come tante. Una partita di calcio tra due squadre di bambini di 7-8 anni. Divertimento puro direte voi, cari lettori. Invece, la violenza è nuovamente scesa in campo. Un alterco tra due piccoli giocatori, un genitore che entra in campo per portare via suo figlio dai pugni sferrati dall’avversario e… l’arrivo del padre del “picchiatore”. Il genitore entrato in campo per sedare gli animi è stato preso per il collo da quest’ultimo e scaraventato a terra. Tra gli sguardi attoniti, il mutismo degli spettatori e dei ragazzi. Chiaramente non è mancata l’omertà quando si è voluto capire chi fosse il facinoroso. Questo è l’ennesimo, ultimo fatto di cronaca, che cozza contro l’idea di sportività e fair-play che dovrebbe esserci su un campo da gioco, che sia di calcio o di bocce. Probabilmente scatterà una denuncia. Da parte della Federazione Ticinese di Calcio, nella figura del presidente Fulvio Biancardi abbiamo ricevuto una risposta lapidaria:“Stiamo facendo gli accertamenti del caso”. Per approfondire questo tema ci siamo dunque rivolti a Fabio Donadelli, mental coach anche in ambito sportivo. 


Partiamo da questo episodio. Cosa scatta nella mente di una persona in questi contesti? 
È importante non fare di tutta l'erba un fascio, come si suol dire. Non tutti i genitori sono mossi da motivazioni nocive, ma purtroppo capita spesso di incontrare persone che vedono nello sport dei figli una rivalsa personale. Quando parliamo di genitori che arrivano alla violenza, spesso si tratta di individui che proiettano le proprie delusioni o aspettative non realizzate sui figli. Il figlio, in questo caso, diventa il mezzo per riscattarsi, per realizzare un sogno sportivo mai compiuto. 


Quindi il successo del figlio diventa una questione personale per il genitore? 
Esattamente. Il concetto di fondo è questo: il genitore sfoga la propria delusione puntando tutto sulla carriera del figlio o della figlia, vedendoli come potenziali campioni. Quando, però, il figlio non riesce a rispondere a queste aspettative (ad esempio, viene messo in panchina dall'allenatore) il genitore si sente defraudato. È come se gli fosse stata tolta l'opportunità di realizzare il proprio sogno attraverso il figlio, e questo genera frustrazione e, in casi estremi, aggressività. 


Perché allora si arriva alla violenza fisica? Cosa spinge un genitore a scontrarsi con altri o con le figure dell’ambiente sportivo come gli allenatori?
Ci sono diversi fattori in gioco. Prima di tutto, c'è la pressione emotiva. Il genitore che vede nel figlio la possibilità di riscatto vive ogni ostacolo come un affronto personale. Se il figlio non viene valorizzato, il genitore percepisce di essere lui stesso sminuito, e questo può scatenare reazioni aggressive. In secondo luogo, c'è il bisogno di affermare un potere, di dimostrare che il proprio giudizio è superiore a quello dell’allenatore, del direttore sportivo o di chiunque altro. È una sorta di follia che porta a cercare lo scontro, convinti che il proprio punto di vista sia l'unico valido. 


Lei ha avuto modo di confrontarsi con genitori in queste situazioni. Cosa dice loro? 
Ho spesso parlato con questa tipologia di genitori, cercando di far loro capire che quando affidano il figlio a una società sportiva o a un team, lo stanno dando in mano a professionisti. Questi professionisti hanno il compito di esaltare le capacità del ragazzo, non solo dal punto di vista atletico, ma anche emotivo e mentale. È come a scuola: affidi tuo figlio a un insegnante e non interferisci. Lo stesso vale per lo sport. Il ruolo dei genitori è di sostenere i propri figli, gestire le delusioni, ma senza oltrepassare il limite. Quando lo fanno, e arrivano a scontri fisici, diventano diseducativi agli occhi dei figli.


Questo porta a un'altra riflessione: cosa accade nel bambino che assiste a una scena simile? Può questo incidere sulla sua voglia di continuare a giocare? 
Le reazioni dei bambini possono essere diverse. Alcuni si imbarazzano così tanto da non voler più praticare quello sport o da avere difficoltà a tornare in campo. Per loro, l'azione del genitore diventa una fonte di umiliazione. Altri, invece, potrebbero sviluppare una reazione opposta, emulando il comportamento aggressivo del padre o della madre. Se vedono che il genitore si comporta in modo prepotente e violento, potrebbero credere che sia giusto fare lo stesso, replicando quelle dinamiche. È un fenomeno che si vede anche a scuola: bambini che emulano i genitori nelle loro sfuriate contro gli insegnanti.


Quindi si rischia di trasmettere un modello negativo di comportamento al figlio, che può interiorizzare queste azioni come un modo legittimo di imporsi? 
Sì, il rischio è proprio quello. Non si tratta di dire che un bambino figlio di un genitore violento diventerà necessariamente violento, ma di certo sarà esposto a un modello comportamentale negativo. Il bambino potrebbe interiorizzare l’idea che essere aggressivi, prepotenti e dominanti sia l’unica strada per ottenere rispetto o successo. E questo è particolarmente pericoloso nello sport, dove dovrebbero prevalere valori come il rispetto reciproco, la disciplina e il fair play. 


Cosa consiglierebbe, quindi, a quei genitori che faticano a separarsi dal proprio desiderio di realizzazione attraverso i figli? 
Consiglio di lavorare molto su sé stessi. Capire che lo sport è un percorso di crescita per i figli, non un prolungamento delle proprie ambizioni. Ogni genitore dovrebbe imparare a sostenere i figli con rispetto, senza imporre le proprie aspettative. Inoltre, rivolgersi a un coach o a un professionista per affrontare queste dinamiche può essere di grande aiuto. Si tratta di creare uno spazio di dialogo tra genitori, figli e società sportive, affinché lo sport rimanga ciò che dovrebbe essere: una scuola di vita, non un campo di battaglia. 


Nel corso della sua carriera di mental coach ha mai dovuto far capire che non tutti i ragazzi diventeranno dei professionisti?
Assolutamente sì. Mi sono trovato spesso a mediare tra genitori e figli, soprattutto quando il ragazzo esprime chiaramente di voler fare sport per piacere personale, senza ambizioni professionistiche. In questi casi, i genitori faticano a capire che non tutti vogliono diventare campioni. Per alcuni, lo sport è solo un divertimento, e questo crea un forte conflitto con quei genitori che non accettano questa scelta.


Cosa accade quando i genitori sono troppo presenti o invadenti nel percorso sportivo dei figli? 
Quando i genitori sono troppo presenti, non solo influenzano negativamente i figli, ma rischiano di compromettere anche il rapporto con il team. Se il genitore supera il limite, cercando di controllare l'allenatore o il preparatore atletico, a lungo andare questo atteggiamento si ritorce contro il figlio. Magari non subito, ma con il tempo l’allenatore o il direttore sportivo inizieranno a guardarlo con sospetto, vedendolo come una fonte di problemi. E questo può diventare un grande ostacolo per la carriera sportiva del ragazzo. 


Cosa succede nei figli quando assistono a questi episodi di violenza da parte dei genitori? 
Ci sono due possibili reazioni. La prima è che il figlio si senta talmente a disagio da voler smettere di praticare quello sport. Si ritrova in una situazione imbarazzante e difficile da gestire. La seconda è che il figlio, invece, inizi a emulare il comportamento violento del genitore, vedendolo come un modello da seguire. Questo è pericoloso, perché può portare il ragazzo a pensare che l'aggressività sia la chiave per affermarsi.

MAURO BOTTI

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