Mondo, 11 giugno 2020

I manifestanti antirazzisti se la prendono con le statue

Non hanno nulla a che fare con il ricordo di George Floyd, il cittadino afroamericano ucciso da un poliziotto a Minneapolis il 25 maggio scorso, le scene che nelle scorse giornate abbiamo visto associate a molte delle proteste del movimento Black Lives Matter: graffiti, vandalisimi, incendi e, cosa più interessante, assalti alle statue. Negli Stati Uniti e in Europa la protesta ha preso di mira le statue di numerosi personaggi storici, attaccate perchè rappresentanti “razzisti”.

Il caso più celebre è avvenuto a Londra, ove il memoriale del primo ministro Winston Churchill è stato sfregiato con una scritta in bomboletta: “era un razzista”. Una mossa ingiustificata che riporta alla mente numerose polemiche sulla figura di Churchill divenute di dominio pubblico dopo l’uscita nelle sale del film sul primo ministro britannico, L’ora più buia, nel 2017.

Il politicamente corretto, come vedremo, eleva a manovra sistemica e strutturale la corsa alla damnatio memoriae. Plutarco ci ricorda che nel 44 a.C. Giulio Cesare, assalito in Senato dai congiurati, cadde assassinato vicino alla statua di Gneo Pompeo. Il feroce rivale della guerra civile, certo, ma anche un protagonista della storia di Roma che il dictator non aveva voluto cancellare dalla memoria collettiva, con un atto di civiltà che troppo spesso manca a chi oggi pretende di riscrivere il passato col senno di poi.

Ma nel mondo di oggi la “guerra alle statue” si è intensificata ovunque: negli ultimi decenni, escludendo casi come quello della statua di Saddam Hussein a Baghdad, rimossa nel 2003 dopo l’occupazione militare statunitense, sono numerosi i casi in cui la caduta o l’assalto delle statue ha rappresentato, per popoli, governi, manifestanti, un atto fortemente politico.

Da Lenin a Nagy, il caso del mondo post-comunista

Buonanotte, Signor Lenin è una delle opere più famose del giornalista Tiziano Terzani, e racconta il viaggio compiuto nel 1991 dal cronista fiorentino nell’Unione Sovietica che si avviava alla fase terminale della sua storia. Sorpreso dalla notizia del golpe contro Gorbaciov mentre era al seguito di una spedizione russo-cinese sull’Amur, Terzani iniziò un viaggio attraverso le repubbliche componenti la superpotenza comunista, in cui le spinte autonomiste si facevano sempre più forti.

Ovunque, dal Kazakistan all’Armenia, per arrivare all’Ucraina e alla stessa Russia, le pulsioni indipendentiste dei popoli sovietici si manifestavano nell’abbattimento delle statue di Lenin, identificate con il declinante mondo comunista: la caduta del fondatore dell’Urss implicava, simbolicamente, la fine della sua creatura politica. Ma, e questo Terzani lo colse fin dalle prime battute, molto spesso il cambiamento era unicamente di facciata: la caduta di Lenin era lo spot mediatico con cui i governanti di numerosi Paesi si riciclarono da maggiorenti locali del Partito Comunista sovietico a presidenti delle nazioni indipendenti.

Più recentemente, nel 2007, l’Estonia fu scossa da gravi tensioni interne e da una dura crisi diplomatica con la Russia dopo la decisione di rimuovere il monumento del Milite Liberatore sulla collina di Tõnismägi, nel centro di Tallinn, raffiugrante un soldato sovietico a ricordo della lotta contro l’occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale. In nome della spinta autonomista di Tallin dalla Russia e dell’avvicinamento all’Occidente, culminato nell’ingresso dell’Estonia nell’Unione europea e nella Nato, l’invasione sovietica del Paese nel 1940 venne paragonata a quella del 1944 che portò alla cacciata dei nazisti e il monumento, raffigurante un soldato estone e costruito da scultori estoni, abbattuto. Tutto questo in sfregio alle decine di migliaia di estoni caduti combattendo nell’Armata Rossa contro l’invasore tedesco.

Le statue, mute testimoni della storia, possono diventare estremamente ingombranti. Tanto che perfino l’epopea di una nazione può essere depennata in nome della Realpolitik e degli interessi di breve periodo. Lo sanno bene in Ungheria, ove il premier Viktor Orban ha fatto rimuovere dal centro della capitale Budapest, nel 2018, la statua rappresentante il leader della corrente riformista del
locale partito comunista, Imre Nagy, protagonista prima e vittima poi della rivoluzione ungherese del 1956 e della successiva repressione sovietica. Orban, che pure iniziò la sua carriera politica con un commovente discorso in ricordo degli eroi del 1956, ha preferito non turbare le floride relazioni politiche ed economiche con la Russia identificandosi in continuità con Nagy e alimentare la narrativa dominante di una condanna in toto dell’esperienza dell’Ungheria filosovietica.

L’iconoclastia del politicamente corretto

Si è ampiamente parlato della furia iconoclasta degli ultimi anni: dalla guerra alle statue confederate negli Usa all’assalto alle statue di Gandhi in Sudafrica, il calderone dei “razzisti” si è riempito di figure estremamente eterogenee. Come se tutto questo potesse migliorare la condizione degli afroamericani o costruire una anche minima coscienza storica.

Giova ricordare quali siano stati, negli anni scorsi, i bersagli del movimento politicamente corretto, con esempi statunitensi e italiani: Cristoforo Colombo, Thomas Jefferson e Indro Montanelli.
Nel 2017 a New York si è scatenata una vera e propria guerra politica in seguito alla richiesta di numerosi gruppi anti-razzisti e di sinistra di rimuovere la statua di Colombo, posta dal 1890 al Columbus Circle, nell’angolo sud di Central Park, e simbolo identitario per la nutrita comunità italo-americana della città. La motivazione? L’esploratore genovese è accusato di essere uno dei colpevoli dello sterminio delle popolazioni indigene e dell’oppressione schiavista che seguì la colonizzazione europea delle Americhe. Un paragone spericolato, a ben vedere: ma che ha animato una guerra politica su cui lo stesso sindaco Bill de Blasio, italoamericano, ha speso un notevole capitale politico per smorzare le tensioni.

Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti, non ha potuto salvarsi da questa spinta iconoclasta. “Jefferson Has Gotta Go!”, hanno intonato nel marzo 2019 gli studenti della Hofstra University di New York, protestando contro la presenza di una statua di un esempio di “suprematismo bianco”, nonchè possessore di schiavi, nel loro campus. L’università americana è il tempio del politicamente corretto: e una semplificazione di questo genere ha colpito un uomo cui si rimporvera, di fatto l’essere stato figlio del suo tempo.

Negli stessi giorni un collettivo femminista aveva imbrattato di vernice rosa la statua di Indro Montanelli nei Giardini di Porta Venezia a Milano. Il fondatore del Giornale è stato attaccato in quanto “razzista”, “colonialista” e “fascista” per la sua giovanile esperienza nella guerra di Etiopia. Tutto questo nella palese ignoranza della successiva opposizione di Montanelli al regime fascista e, addirittura, della condanna a morte che pendeva sulla sua testa da detenuto a San Vittore nei giorni roventi della primavera 1945.

Un difficile rapporto con la storia

La guerra alle statue, in fin dei conti, cosa segnala se non una difficoltà a relazionarsi con la storia in maniera dialettico? La storia non è nè un tribunale nè, necessariamente, una maestra di moralità. Resta però maestra di vita e consente di fare analogie, di capire il passato per meglio agire nel presente. Piegare gli avvenimenti del passato o il giudizio su figure morte da decenni o da secoli all’ideologia del presente, tentazione fortissima nel mondo “politicamente corretto”, è una scelta a dir poco rovinosa.

Dovremmo, quindi, rimuovere dai musei le statue di Giulio Cesare e Traiano, conquistatori e in predicato di ricevere accuse di “genocidio”? Distruggere quelle di Dante Alighieri, che non potremmo fare a meno di definire antisemita, islamofobo e omofobo? O, esageriamo, quelle di Niccolò Machiavelli perché apertamente politicamente scorretto?

Depenneremo dai libri di storia Alessandro Magno, Napoleone, Giustiniano in quanto guerrafondai? L’assurdità di queste domande dà l’idea della pretestuosità della guerra alle statue. Che segnala una sostanziale ignoranza sulla storia come grave vulnus della cultura contemporanea.

Andrea Muratore / insideover.it

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