Lavorare nuoce gravemente alla salute. Di lavoro si può anche morire (e non solo per il ben noto fenomeno delle “morti bianche”).
Se per la difficoltà di riuscire a trovarlo, molte persone vivono al giorno d’oggi una condizione di estrema frustrazione, sono molti i casi in cui il lavoro stesso si trasforma in un incubo per chi ce l’ha. C’è una moltitudine di persone per la quale il posto in cui si reca per svolgere la propria professione rappresenta un vero e proprio luogo di tortura. Tortura psicologica, morale, fisica. Persone che il più delle volte quel posto di lavoro se l’è sudato, lo ha conquistato perché capace, senza sconti o raccomandazioni. Persone disposte ancora a credere nella meritocrazia e, che nell’ambiente di lavoro, come in ogni contesto sociale, vigano le stesse regole civili della buona educazione e del rispetto dell’altro. Il diligente lavoratore sa, dal canto suo, che questo si traduce anche nel rispetto per le necessarie formazioni gerarchiche, per i ruoli che ciascuno ha all’interno dell’organizzazione lavorativa di cui fa parte. Sa bene anche che un lavoro, e di conseguenza chi ne è il datore, merita da parte sua il dovuto rispetto, l’assoluta lealtà, e la piena dedizione nelle mansioni cui è stato affidato.
Mors tua, vita mea
Si afferma che il lavoro nobilita l’uomo, che esso costituisca per l’individuo uno dei requisiti fondamentali alla sua piena realizzazione personale; si parla degli ambienti di lavoro come luoghi in cui debba essere assolutamente riconosciuta e tutelata la dignità della persona, ed anzi, debbano essere poste in essere le condizioni per favorirne la crescita professionale. Non è un caso se tutte le nazioni democratiche recano la voce “lavoro” nelle proprie Carte costituzionali, come un diritto inalienabile dei propri cittadini. Non è un caso se per esso si sono sostenute tante lotte, si sono spesi effluvi di parole e formulazioni di principio, sono state elaborate leggi specifiche a tutela del lavoratore, e nate tante organizzazioni, movimenti ed enti che se ne fanno garanti. Sulla carta è sempre tutto a posto, legale, giusto. Ma nella società umana, si sa, vigono spesso delle regole, non scritte, non contemplate in nessun contratto di lavoro che si rispetti,
che fanno rassomigliare il consorzio umano più ad una giungla, ove vigono le regole del più forte, del “morte tua vita mia”, della sopraffazione, del sovrasfruttamento, dell’arrivismo a tutti i costi. Ed è in questo ambito del non scritto che prospera e trova il suo habitat ideale un certo tipo di “uomo della giungla”; è qui che egli si trova pienamente a proprio agio, avendo raggiunto un dato potere e provando gusto nell’usarlo, anche al di là del lecito.
Panni sporchi in azienda
L’aguzzino costruisce la sua vita e tutto quanto faccia parte del suo mondo attorno al lavoro nella cui sede può sistematicamente affinare il gusto sadico di sovrastare gli altri e, naturalmente, di colpire il più debole. Il suo è un caso ben noto alle scienze umanistiche e sociali, specie alla psicoanalisi (Freud ne ha ispezionato ogni retaggio infantile, ogni frustrazione sessuale celata tra le pieghe della sua psiche e del suo letto). Un tipo umano piuttosto diffuso ancora oggi, nella civilissima società occidentalizzata. Un soggetto che tende spesso a legittimare certi comportamenti come espressione di una sua ambizione che trova la più eloquente sintesi nella massima: “ il fine giustifica