Sport, 16 giugno 2024

La nazionale d’oro magiara: la più forte di tutti i tempi

Ieri i rossocrociati hanno affrontato l’Ungheria, un tempo leggenda immortale del calcio

LUGANO - Tanto tempo fa, negli Anni Cinquanta del secolo scorso, il mondo del pallone rimase abbagliato dal calcio spumeggiante e diretto della nazionale ungherese. Uno squadrone, si disse allora. Tanto che la stampa magiara elevò le sue gesta con il nomignolo di Aranycsapat, che tradotto in italiano significa la nazionale d’oro. In quel periodo, l’Ungheria viveva sotto il ferreo regime comunista e la maggioranza dei giocatori erano soldati dell’esercito: chi con il grado di sergente, chi con il grado di tenente e chi con “le lasagne” da colonnello appiccicate al braccio. Il calcio era un formidabile mezzo di propaganda politico e il governo filo-sovietico ne aveva fatto un caposaldo della lotta al capitalismo e al professionismo nello sport. Ma se la politica presto avrebbe fatto i conti con le rivolte popolari (poi stroncate nel sangue), la grande Ungheria pedatoria avrebbe mostrato al pianeta calcio tutta la bellezza e l’armoniosità del suo gioco. 


La storia dell’ Aranycsapat nasce dal genio e dalle intuizioni del commissario tecnico Gustav Sebes. Aveva cominciato a giocare nella squadra della milizia, l’Haladas, per poi passare al Vasas Budapest, storica squadra della Capitale, per poi finire nel MTK. Centromediano di spinta, duro e intelligente, aveva affrontato avversari di grande qualità come Sarosi, Piola, Sindelar, Svoboda. “Ero molto autocritico, dopo ogni partita analizzavo il mio gioco, cercavo di individuare le mie debolezze e correggere le deficienze durante gli allenamenti. Cercavo di mantenermi sempre in buona forma, poiché sapevo che in condizioni fisiche migliori, con una maggiore volontà combattiva, sarei stato capace di avere la meglio anche su calciatori tecnicamente più forti”. Un Arrigo Sacchi anti-litteram, uno studioso di tutti i dettagli: la tattica, la tecnica e, pure, l’aspetto umano. Divenne un autentico guru ma seppe mantenere un profilo basso: umile, modesto e sempre pronto a dare una mano al prossimo. Fu il grande Ferenc Puskas a definirlo così. Sebes era convinto che non bastassero le doti tecniche a fare un grande calciatore: “L’allenatore può fare un lavoro efficace solo se il giocatore dispone di un ‘intelligenza di gioco speciale. La capacità non è tutto e non serve a molto se non si accompagna all’esercizio, all’allenamento”.


Comunque: Sebes diventa commissario tecnico magiaro nel 1949 e si trova fra le mani un gruppo di grandi stelle e tutte appartenenti alla Honved di Budapest, la squadra dell’esercito, all’epoca la squadra piu forte al mondo. Dalla seconda guerra mondiale, che aveva lasciato sul campo oltre 50 milioni di morti, era uscita una rosa di grandi calciatori che contemplava, almeno nell’Est Europa, una perfetta simbiosi fra le grandi aziende statali e i club calcistici. E in quegli anni era proprio la Honved a dominare il panorama nazionale (vinse quattro titoli in sei stagioni: 1950, 1952, 1954 e il 1955). La repressione comunista avrebbe tuttavia messo fine a quella bellissima esperienza, facendo fuggire all’estero i migliori elementi.


Le Olimpiadi del 1952 consacrarono l’Ungheria quale miglior squadra al mondo. Vittorio Pozzo, ex CT azzurro due volte campione iridato, commentò di non aver mai visto un calcio così spettacolare. La rivista tedesca “Kicker” scrisse che novanta minuti erano troppo pochi per un football così straordinario. E intanto il mondo conosceva le stelle magiare di prima grandezza: Nandor Hidegkuti era una grande ala, ma non un uomo di sfondamento. Disponendo di due interni da vecchio metodo, Kocsis e Puskas, efficacissimi uomini gol, Sebes riteneva di dover schierare un attaccante più portato alla manovra. La chiave di volta era Hidegkuti: “Eravamo nel 1951, l’anno prima delle Olimpiadi e la nostra Nazionale continuava a mancare di un centravanti. Tra Kocsise Puskas non potevo mettere uno qualsiasi. Qualche mese prima dei Giochi, erano in programma due partite a Varsavia e a Helsinki con i polacchi e i finlandesi. E così decisi di schierare Hidegkuti. Fu la mossa vincente” chiosò Sebes.


Nessuna squadra continentale aveva mai vinto in Inghilterra, da novant’anni i Maestri non perdevano sul proprio campo. E siccome c’e sempre una prima volta, ecco che “l’incontro del secolo” tra i campioni olimpici magiari e gli albionici finisce a pallate: 6-3 per gli ospiti con tre reti di Hidegkuti, che annientò lo stopper inglese coi suoi arretramenti, due di Puskas e una di Bozsik. Il risultato suscitò stupore, ma ancor più la rivincita, che si svolse il 23 maggio dell’anno seguente: 7-1 per gli ungheresi. In due partite amichevoli l’Inghilterra aveva incassato la bellezza (si fa per dire) di 13 reti dai magiari. Il Mondiale del 1954 avrebbe perciò dovuto sancire la superiorità dell’Ungheria. Ma in Svizzera, dopo grandi prestazioni di gioco (e pure di botte nel famoso scontro col Brasile) avvenne il crollo. Durante gli ottavi, a Basilea, già si erano trovate di fronte le due squadre destinate alla finale e la Germania era stata sepolta di reti (8). Ma il difensore tedesco Liebrich aveva messo KO Puskas. “Mi venne in mente” raccontava Sebes nelle sue memorie “la valutazione della rivista tedesca Kicker dopo le Olimpiadi: i giocatori ungheresi sono i maghi del calcio. I fili convergono in Puskas. E lui che dirige, che guida la squadra sulla via che conduce alla vittoria”.


Puskas uscì dal campo con una caviglia distrutta ma giocò la finale e al sesto minuto siglò il vantaggio per gli ungheresi. I quali raddoppiarono in seguito. Ma fu pia illusione, giacchè i tedeschi nella ripresa ribaltarono la partita e vinsero il Mondiale anche se ancora oggi si nutrono dubbi sulla legittimità di quel successo. Non erano forse drogati i teutonici?


Doping o non doping, quella dolorosissima sconfitta di fatto decretò la fine della nazionale più forte del mondo. Nei giorni della rivolta contro il regime comunista lo zoccolo duro della squadra, costituito dai giocatori della Honved, si trovava all’estero in tournee. Alcuni tra i più famosi decisero di non tornare in patria e, dopo diverse traversie, vennero raggiunti dai familiari in Spagna, dove firmeranno o per il Real Madrid o per il Barcellona. Da una dittatura all’altra: dai seguaci di Stalin al caudillo Franco.


JACK PRAN

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